Il Pilota sedeva immobile nell’abitacolo, le mani avvolte intorno ai comandi, come radici cresciute intorno a un tronco. L’aliante scivolava lento e silenzioso attraverso le correnti della stratosfera di Mondo-Giove, le sue ali immense distese come quelle di una manta celeste, pulsanti di vita propria. Si piegavano al respiro delle tempeste, flessuose, adattandosi ai ritmi del vento ambrato, come se il velivolo fosse nato in quell’atmosfera e non fosse stato portato lì dall’uomo.
Sotto di lui, la furia delle nubi ribolliva in movimenti circolari senza fine, un oceano di gas e pressione che sfidava ogni concetto umano di quiete. Tempeste ciclopiche si allungavano verso l’orizzonte, vortici che danzavano come spettri nel crepuscolo eterno di quel gigante gassoso. Nulla di ciò che vedeva apparteneva al suo mondo, nulla era stato creato per essere compreso.
Il nodo IA, distante e inefficace, taceva, escluso dalla vastità geometrica di Mondo-Giove. La curvatura del pianeta spezzava la connessione e lasciava il Pilota solo, senza guida, senza voce. Ma non era nuovo a questa solitudine; era parte del protocollo. Una solitudine prescritta, calcolata.
Dalla carlinga dell’aliante, un drone si staccò, una piccola scintilla che scivolò verso l’abisso. Il Pilota seguì il suo viaggio con lo sguardo fino a quando scomparve nella coltre turbinosa. Ogni sgancio era una ripetizione del precedente: sganciare, osservare, aspettare. Un rituale.
C’era una sorta di ipnosi in quel ritmo, un senso di inevitabilità che divorava il tempo. Le sue mani eseguivano i comandi senza pensare, il corpo unito alla macchina in un unico essere. Al di fuori di quella cabina, il tempo non esisteva. Era solo una sequenza di movimenti, di luce e vento, di pulsazioni luminose sui comandi e nubi che ruotavano nel vuoto.
Per un istante, chiuse gli occhi. E in quel buio interiore, tornò ai cieli di casa. Al verde dell’erba che gli pungeva la schiena, alla luce tiepida del sole sulla pelle. Ricordò i suoi sogni da bambino, quando guardava il cielo immaginando Mondi lontani come Giove. Non aveva mai pensato che sarebbero stati così vasti. Né così vuoti.
Aprì gli occhi e osservò di nuovo le nubi. Erano eterne, incuranti della sua presenza. Lui era solo un passaggio, un movimento temporaneo in un mondo che non sapeva di lui. Eppure, c’era qualcosa di confortante in quella indifferenza. Un ordine che persisteva al di là delle vite umane, al di là dei nomi e dei ricordi.
La sua esistenza era piccola, insignificante. Ma non era inutile. Ogni comando che impartiva all’aliante, ogni sguardo gettato su quel cielo alieno, era un’eco di qualcosa di più grande, un filo intrecciato nel tessuto infinito dell’universo.
Quando la prossima luce sul pannello lampeggiò, preparò il prossimo drone per lo sgancio. Guardò un’ultima volta l’abisso di Mondo-Giove, quel cielo infinito, e capì che non era lì per lasciare un segno. Era lì per osservare, per testimoniare. E forse, per accettare.